Iraq Iraq
Quattro di noi
Il 26 novembre scorso alla periferia di Baghdad Tom, statunitense di 54 anni, Norman, inglese di 74, James e Harmeet, canadesi di 41 e 32 anni,sono stati rapiti mentre giravano disarmati e senza scorta. Si trovavano in Iraq per il Christian Peacemakers Team, organizzazione americana presente nel paese dal 2002,specializzata nell’interposizione nonviolenta. Il Cpt in questi tre anni ha svolto sul campo un lavoro di documentazione indipendente, sostenendo in particolare i diritti dei detenuti. Il disinteresse che i media e l’opinione pubblica italiana dimostrano verso questa vicenda è triste e preoccupante.
Scritto da Cristina Graziani (Volontaria Operazione Colomba)
Da sabato scorso non ci sono più notizie.
Nessuna notizia di Tom Fox, Norman Kember, James Loney e Harmeet Singh Sooden, volontari CPT (Christian Peacemaker Teams) rapiti sabato 26 novembre a Baghdad, Iraq, da un gruppo che dichiara di chiamarsi “Spada della Verità”.
I tempi sono sempre lunghi e le attese spesso sfibranti, mi dice chi di queste cose ha più esperienza.
Forse è vero, ma la cosa non mi consola.
Perché questi rapiti dovrebbero essere diversi dagli altri rapiti?
Lo sono, diversi.
Diversi perché tra i pochi andati in Iraq per stare con le persone più deboli, portando accoglienza, solidarietà, e una ferma e coraggiosa scelta nonviolenta in mezzo alla guerra che la loro stessa patria (ma anche la nostra) esporta mano nella mano con la “democrazia”.
Diversi perché al posto della forza delle armi e dell’arroganza hanno scelto di entrare in Iraq in modo vulnerabile, con umiltà.
Diversi perché hanno affrontato la vita irachena allo stesso modo della popolazione, con gli stessi rischi per la propria incolumità, senza nascondersi dietro a fucili, o dentro “sicuri” compound.
Diversi perché hanno scelto di stare in mezzo alle vittime della guerra, le vedove e le famiglie dei prigionieri, vivendo il profondo contrasto di farsi portavoce dei diritti e dei bisogni basilari della gente verso gli occupanti occidentali e denunciando le violazioni dei diritti umani inferte ai prigionieri da parte degli eserciti stranieri.
Diversi perché i volontari CPT non giustificano l’uso della forza e della violenza nemmeno per salvare le proprie vite, siano essi stati rapiti, tenuti in ostaggio, o catturati nel mezzo di una situazione di conflitto.
Questi non sono prigionieri “illustri”. Non sono giornalisti né consulenti militari, né soldati mercenari né diplomatici. Sono tutti volontari, senza stipendi profumati.
Sono per noi anche persone speciali, perché con uno di loro abbiamo condiviso un periodo nella presenza che Operazione Colomba e CPT portano avanti insieme nel sud dei Territori Occupati Palestinesi, e con gli altri, così come con tutto il CPT, abbiamo percorsi comuni di nonviolenza, scelte di vita, esperienze vissute insieme, legami.
Per questo il silenzio e il disinteresse che circonda il loro rapimento in Italia ci rattrista.
Perché non sono altro da noi, non sono lontani dai percorsi che molti gruppi e persone, dentro e fuori dal cosiddetto Movimento portano avanti nelle proprie famiglie, comunità, in Italia, all’estero, nelle guerre dimenticate e non.
Sono persone che hanno dedicato le loro vite a combattere contro la guerra e che si sono opposte con chiara fermezza e pubblicamente contro l’invasione e l’occupazione dell’Iraq.
Sono stati tra i primi a documentare le torture che avvenivano nella prigione di Abu Ghraib, molto prima che la cosa uscisse allo scoperto sulla stampa.
Convinti che non fosse sufficiente opporsi alla guerra dal sicuro rifugio delle proprie abitazioni, hanno preso la difficile decisione di andare in Iraq, consapevoli che il clima di sfiducia creato dall’occupazione straniera significava poter essere scambiati per spie.
I CPT sono un gruppo pacifista nonviolento legato ad alcune chiese protestanti, in particolare Quaccheri e Mennoniti, attivi in numerose zone di conflitto con una impostazione rigorosamente nonviolenta e di radicale contestazione delle politiche statunitensi. Il loro slogan è “Getting in the Way”, letteralmente “mettersi in mezzo”, nel senso di interposizione in qualunque situazione di oppressione, capacità e scelta di mettersi in cammino a fianco degli ultimi.
In una Dichiarazione di Consapevolezza, i membri di lungo periodo del gruppo avevano dichiarato di «essere consapevoli dei numerosi rischi che sia gli iracheni che gli internazionali corrono» e che «i rischi non sopravanzavano il loro proposito di rimanere». Esprimono la speranza che «amando sia gli amici che i nemici e intervenendo in modo nonviolento per aiutare coloro che sono sistematicamente oppressi, possiamo contribuire in piccola parte alla trasformazione di questa situazione instabile».
Avrei voluto che fossero di più ad indignarsi per questi operatori di pace forse non compatrioti ma con una coerenza e un coraggio che si dovrebbe riconoscere e rispettare.
E onorare.
Tom Fox il giorno prima del suo rapimento ha scritto: «qui in Iraq la violenza si esercita tramite la disumanizzazione dell’altro. I soldati americani rubano l’umanità delle persone: gli Iracheni non sono più esseri umani. Solo così i soldati possono uccidere, imprigionare, torturare e sentirsi a posto con la propria coscienza. A noi tocca il compito di sradicare tutto ciò che di disumanizzante c’è in noi, per primi, e riscoprire con chi ci sta vicino la comune umanità».
Per informazioni sul Christian Peacemaker Team:
http://www.cpt.org
On line è possibile firmare un appello per la loro liberazione:
http://www.petitionspot.com/petitions/freethecpt
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