Editoriali Italia
Diritto di cronaca
Il contributo dei caschi bianchi alla tutela di un diritto negato.
Scritto da Giusy Baioni (Giornalista free lancer)
«Me lo ha raccontato una giovane giornalista che mi intervistava – mi disse un missionario –: “Ai corsi di giornalismo insegnano che un morto europeo vale 300 asiatici e 1000 africani”».
Mille a uno. Non male, per una civiltà che si rifà ai “diritti umani” e che vanta il richiamo alle idee della Rivoluzione francese. O che si appella alle tanto discusse “origini cristiane”, di cui si riempie la bocca, anche se poi divide il mondo in serie A e serie B.
La stessa divisione che si ritrova nelle scelte politiche dei giornali. Il diritto di cronaca diventa diritto di gossip, qui da noi, mentre “gli altri” non esistono. E così, a chi crede in questo mestiere e tenta di raccontare cosa accade nel mondo reale, non resta spesso che attendere. O anche rassegnarsi. I file nel computer aumentano, i quaderni di appunti si accumulano sulla scrivania. Ma a nessuno interessa pubblicarle, quelle storie. Quando va bene, attendono mesi nel cassetto di qualche redattore. Tanto, si sa, “sono solo africani”.
«Sotto Natale, serve più spazio per la pubblicità. E poi il pubblico vuole racconti sereni». Cose che mi sono sentita dire.
Così, tra rabbia, frustrazione e tristezza, conservo i ricordi delle tante storie rimaste nel taccuino. E ormai “vecchie”. Sì, perché l’altro problema è il tempo, in questo mondo a due velocità. Ogni storia invecchia in un batter d’occhi, poco importa se le emergenze lasciano scie pesanti per decenni. Anche lo tsunami, ormai, viene dopo le condizioni del tempo e l’andamento del traffico nel week end. Un mondo che macina, brucia ogni fatto, ogni evento. Senza rispetto alcuno per le persone che di quelle storie sono l’anima.
Anche il codice deontologico ha due metri di valutazione: tutti sanno che giustamente non si può pubblicare la foto di un bambino, la privacy non te lo consente; si rischiano cause esose e il richiamo dell’Ordine. Ma se quel bambino è del sud del mondo, magari africano, non importa. Tanto, nessuno mai ti farà causa, no? Anzi, se poi è triste e con le mosche sul viso, meglio ancora, quando serve, quando si ha l’esigenza di intenerire e suscitare nel pubblico quel senso di colpa che dura circa 30 secondi. Il tempo di dire: poverini. E poi tornare a seguire le rubriche sulla moda.
Sono storie di sofferenza, di orrori, ma anche di speranza, quelle che non trovano spazio nei nostri giornali. Volti di gente comune, che vive lontano da noi, ma anche di chi, nelle nostre fredde città, non ha diritto di cittadinanza. Conservo le voci degli sfollati in fuga da Bunia, Rd Congo; ma anche dei bimbi sereni, accuditi e coccolati in un centro per minori con Aids, a Nairobi.
Ma ci sono anche storie vicine. Vi ricordate, per esempio, i rom di via Adda a Milano? L’anno scorso tutti a riprendere lo sgombero. Tutti parlavano di loro; ma a nessuno è interessato parlare con loro. Che fine abbiano fatto, non ha importanza. Contava solo che non “infestassero” più il centro di Milano. Che siano stati espulsi in massa, che alcuni in regola dopo una settimana dormissero ancora in mezzo a una strada, poco importava. Anzi, nulla. È solo un esempio.
Ma mostra ancora una volta che sono sempre le vittime a non avere voce. Da Falluja forse non avremo mai notizie, testimonianze su cosa è davvero successo durante l’assedio americano. Anche il “nemico”, infatti, non ha diritto di cronaca. Perché come nemico non ha più un volto, non è più persona. Da lì, a cadere negli orrori che questa e altre guerre ci riportano, il passo è breve.
“Non è opportuno” o “non interessa”. Questi sono i due no dall’alto che impediscono a tanti giornalisti di raccontare il mondo reale. E – in questo l’Italia ha probabilmente un primato negativo – gli esteri hanno per giunta pochissimo spazio. Persino il presidente Ciampi lo ha di recente richiamato ai giornalisti, durante l’incontro annuale.
Certo, c’è la stampa alternativa. C’è internet. Meno male.
Ma – purtroppo – resta informazione “di nicchia”. Chi vi si accosta ha già una sensibilità che lo porta a cercare, a non accontentarsi delle notizie che passa la stampa nazionale. E gli altri? Chi non può/non sa avvicinarsi a questi mezzi, non ha diritto ad un’informazione corretta e completa?
Il grande cruccio, la sofferenza ma anche la sfida più grossa, oggi, si gioca qui: riuscire a “scavalcare il muro”, a perforarlo, per raggiungere chi sonnecchia davanti alle soap opera e ai grandi fratelli. Recuperare alla realtà chi viene volutamente risucchiato in un mondo virtuale che trasforma tutti in passivi consumatori acritici.
Ricette non ce ne sono. Si va per tentativi. Uno strumento come Antenne di Pace offre il suo contributo nel superamento del muro del sonno mentale. E – cosa preziosissima – ci permette di raccogliere e conoscere tante storie che rimarrebbero altrimenti inascoltate.
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