Caschi Bianchi Perù

Cronaca di una festa annunciata

Una giornata divertente passata tra gavettoni, balli, giochi e colori: questo è il carnevale amazzonico che ci racconta Lucrezia, Casco Bianco in Perù.

Scritto da Lucrezia Giordano, Casco Bianco FOCSIV a Iquitos

“Mi raccomando, mettetevi vestiti vecchi”.

“Non portate il cellulare”.
“Perderete le scarpe senza neanche accorgervi quando è successo”.
“A un certo punto chiuderanno l’acqua e inizieranno a fare gavettoni con tutto quello che si trova nelle fogne”.
Dopo tutte queste raccomandazioni, aspettavo il Carnevale amazzonico con una sorta di eccitazione nervosa. Il giorno di Carnevale sembra essere il vanto della città di Iquitos; quel giorno all’anno dove si creano tutte le storie che verranno ripetute all’infinito, tramandate e modificate fino a diventare simboli folkloristici di una moderna trasposizione orale. È difficile capire dove sia il confine tra verità ed esagerazione, soprattutto perché a Iquitos il termine “esagerazione” esiste sul vocabolario ma non nella realtà di tutti i giorni.
La gente di Iquitos ci prepara al Carnevale bilanciando terrorismo psicologico e storie di gloria passata, dove episodi di balli e divertimento si alternano a resoconti di gente finita coperta di escrementi. “Mi metterò un sacchetto di plastica in testa” mi sembra, per un pomeriggio, la soluzione più intelligente da adottare… fino a quando un amico iquiteño mi fa notare che probabilmente servirebbe solo a farmi identificare di più come bersaglio. E va bene, accettiamo il rischio “cacca-sui-capelli” allora.
Per il Carnevale amazzonico ogni quartiere erige la sua humisha, una palma a cui vengono appesi vari oggetti e che viene abbattuta a colpi di machete durante i festeggiamenti, mentre la gente vi balla intorno bevendo litri su litri di birra (se birra e machete vi sembrano una combinazione azzardata, probabilmente avete ragione: tuttavia, un altro concetto dai confini molto fluidi qui a Iquitos è quello di “rischio”). Durante i giorni precedenti il Carnevale le strade si sono quindi riempite di motorini e motocarri trasportanti palme con tronchi lunghi il doppio del mezzo di trasporto stesso, che speronavano sprezzantemente altri motoristi e qualche cane troppo sprovveduto rimasto intrappolato nel traffico.

Ridendo in faccia al pericolo, alla fine anche io e Veronica, la mia compagna di Servizio Civile, ci siamo unite ai festeggiamenti del quartiere di un nostro amico iquiteño. Sandali di gomma, vestiti vecchi e niente effetti personali: eccoci pronte ad affrontare a testa alta tutto quello che la città vorrà buttarci addosso. Già nella strada di casa nostra, realizziamo che la gente di Iquitos sembra illuminarsi di un’aggressività nuova e speciale alla vista di due ragazze chiaramente non peruviane. Al suono del grido di guerra “A LAS GRINGAAAAAS! AGUA A LAS GRINGAS!”, delle signore comodamente sedute di fronte alla loro casa aizzano bambini a gettarci addosso secchiate d’acqua. Altra gente ci ferma per strada per ballare con noi e per cospargerci di colori: non abbiamo nemmeno fatto cento metri e io sono già completamente viola. La strada verso il barrio del nostro amico è costellata da “Pooobreees, mira a las blanquitas”: risate e sguardi di divertita compassione da parte di peruviani notevolmente meno colorati e più asciutti di noi ci seguono fino alla destinazione.

Circondata da terra polverosa che a causa dei gavettoni sta diventando fango, la nostra humisha si erige contro lo sfondo cittadino e il cielo aranciato di un sole che sta già tramontando. Io e Veronica siamo d’accordo: lotteremo per la terrina di plastica blu e il portaoggetti in rete arancione. Senza questo bottino la nostra giornata sarà un fallimento, uno sfacelo; la nostra casa necessita per davvero di questi rari e pregiati manufatti. Cosparsa di pittura blu perfino sui denti (omaggio di benvenuto da parte della gente del quartiere) inizio a ballare intorno alla humisha con la señora Mercedes: una piccola matrona che, nonostante l’età e le gambette corte, dimostra di essere molto più allenata di me. Dopo qualche giro intorno alla humisha, infatti, i miei polmoni chiedono pietà e la mia testa inizia a girare. Senza placarsi, la señora Mercedes continua a trascinarmi sottobraccio a ballare nel fango, con i miei piedi che scivolano nei sandali di gomma. Inizio a credere all’avvertimento riguardante la perdita delle scarpe.
A un certo punto, un ragazzo decide di passarmi il machete così che possa partecipare all’abbattimento della humisha. Pessima decisione: sappiate che un’italiana inesperta maneggia il machete PEGGIO di un peruviano ubriaco. Presa dalla foga e dal pensiero della terrina, mi avvento sulla palma guidata da un’energia primordiale. Sto usando un machete e sta funzionando! Mi sento viva. Mi sento potente. Ma sento anche qualcuno che inizia urlare “Suave, suave! No asì!”: rallenta, colpisci più lentamente, mi stanno urlando i peruviani che mi circondano. Piena di vergogna per il mio delirio di onnipotenza, passo il machete alla señora Mercedes, che colpisce con gentile maestria il tronco della humisha.

Il momento tanto atteso della caduta avviene mentre io sto preparando gavettoni con alcuni bambini. Appena sentiamo le urla, raduno il mio piccolo esercito e li esorto ad attaccare con i palloncini le persone che si sono gettate sopra l’humisha tentando di accaparrarsi uno degli oggetti. Mi sembra di scorgere, in mezzo alla ressa, una gamba di Veronica e i suoi capelli: infatti a un certo punto riemerge sollevando un cestino in plastica verde mela e uno sapote (tipico frutto amazzonico). Io contribuisco con un palloncino mezzo vuoto e un paio di occhiali di plastica rosa da bambina, a forma di cuore. La terrina e il portaoggetti sono stati conquistati da qualcuno più agguerrito di noi. Cerchiamo di superare la delusione ballando al ritmo di “Radio Cumbia”, finché la stanchezza e il mio livello di sopportazione della cumbia amazzonica raggiungono il limite.

E adesso posso dirlo: sono sopravvissuta al Carnevale amazzonico. Non solo: sono sopravvissuta e mi sono anche divertita (e soprattutto non sono stata colpita da materiale fognario). Ho vissuto sulla mia pelle la sensazione di avere vissuto una giornata di cui parlerò a tutti per molto tempo, fino a quando i dettagli di quello che è successo si fonderanno in una storia che ha dell’improbabile. “Il Carnevale passato a Iquitos” diventerà parte del mio archivio di miti e leggende personali; uno di quei giorni a cui ripenserò una volta tornata in Europa chiedendomi: ma mi è successo davvero? Per ora, la vernice blu che ho ancora incrostata tra i capelli e nelle orecchie ne è la prova.
E soprattutto per ora sono ancora qui, a dare alla città di Iquitos mille altre possibilità di farmi perdere le scarpe senza che neanche me ne accorga.

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