Albania Caschi Bianchi

Atti(mi) finali

Alla fine del suo anno di Servizio Civile, Aurora ci racconta come questa esperienza sia stata per lei un terreno fertile, dove non sono mancate le difficoltà, e dove le relazioni lasciano un segno

Scritto da Aurora Incitti, Casco Bianco in Servizio Civile con Apg23 tra Tirana e Scutari

Voglio immaginare un albero. Un terreno, grande o piccolo, differenza non ne fa. Ma un terreno fertile, di sogni e di speranze.

Voglio immaginare una casa. Poi chiudo gli occhi e penso l’Albania. La immagino indietro nei pensieri, come la sognavo, come la rappresentavo: un baule in cui rinchiudere delle certezze ancora da inventare. Poi immagino una partenza, per un motivo che ho capito adesso, che sto alimentando giorno per giorno. Perché non è all’arrivo, ma proprio quando la partenza è vicina che il senso si fa concreto.

Voglio immaginare un albero con delle radici ben solide. Con un tronco forte, imponente. E immaginando questo tronco penso che le radici solide e quel terreno fertile abbiano fatto il loro lavoro. Penso alla delicatezza del mio corpo che si infrange contro la robustezza di pezzi posti uno sopra l’altro in un ordine non stabilito a priori, ma non casuale. Piuttosto causale. Penso alla mia mente che si fa portavoce di un pensiero nuovo, stabile e duraturo. E penso alla mente di quella ragazza partita quasi un anno fa. Come è cambiato il mondo, il mio piccolo mondo! È cresciuto insieme a me, ha raggruppato in sé persone, gesti e giornate di sole. Ma anche di pioggia.

Voglio pensare all’inverno. Del cuore e della mente. Una stagione non solo tangibile per i suoi rami spogli. Una stagione di letargo, può essere. Ma anche di costruzione e stabilizzazione. Penso anche a dei rami. Dei rami in fiore oggi e in frutto domani. Penso a chi ho incontrato in questo inverno e a chi è fiorito in questa primavera. Agli sguardi e alla complicità alimentata da piccole cose. Penso a chi lascerò e a chi ci sarà al mio ritorno. Penso alle lacrime che non avrei mai pensato di piangere ma so che caccerò fuori prima di salire su un aereo. E maledirò il giorno in cui credevo che rimanendo fredda o distaccata, non mi sarei legata a nessuno; ma dopo ringrazierò perchè proprio in quella freddezza si è creato un focolare a cui girare attorno, attraverso cui leggere la realtà per quella che è: relazioni. La realtà è relazione. E l’altro vuoi o non vuoi ti salva.

Quindi voglio pensare che se il terreno è irrigato ci sono i presupposti per fare nascere la vita. Voglio pensare che se il tronco è forte, si può crescere.

Infine voglio pensare che se le radici sono solide e profonde, allora quei rami  lunghi e potenti possono arrivare ovunque.

L’idea dell’albero con delle radici solide e dei rami che vanno ovunque è un’immagine che rimbomba dentro di me da qualche giorno, da quando ho iniziato a fare il bilancio di questo anno che si sta per concludere. A metà tra Tirana e Scutari, prima alla Capanna di Betlemme, poi in Casa Famiglia, questa strana Albania racchiude in sé tanti presupposti futuri e tanto bene raccolto e donato. Se in questo anno a tratti traumatico, a tratti rivelatore, c’è un filo conduttore, questo è proprio la rappresentazione di una casa rigogliosa e potente allo stesso modo di un albero con radici solide. Una casa che si trova all’inizio e alla fine di questo percorso, da dove sono partita e dove ritorno, come se l’inizio e la fine fossero legati ed emotivamente molto carichi.

Casa è da dove sono partita, quel luogo dove non mi mancava nulla ma da dove ho sentito l’esigenza di andare via. Questi mesi sono serviti per riempire quell’esigenza, dargli un nome. Il luogo di partenza mi ha dato le radici ben solide, credendo in me e facendomi credere nella giustizia della dignità e del protagonismo esistenziale di ogni essere umano. Partendo e ascoltando il profondo di me stessa ho creato un tronco largo e robusto, dandomi la prova che se le radici sono solide i rami possono andare ovunque e scoprire mille mondi possibili, incontrando mille persone dalle mille sfaccettature, mille sorrisi e mille mani per sorreggersi a vicenda. Oggi sento meno il peso del fallimento e più quello della solidità delle mie gambe, ma questo è stato grazie a ciò che ho lasciato a casa e alle mani tese di chi ho incontrato in questo cammino. Mani inconsapevoli, a tratti sofferenti e sconosciute in cui sono racchiuse le storie più o meno celate di chi ho incontrato. Partire mi è servito per alimentare quella pace del cuore che avevo in Italia ma che aveva bisogno di prendersi del tempo per sé. E quella pace l’ho trovata nel tormento di sentirmi all’altezza di competere con storie precarie, vite sofferenti e un paese a tratti tremendo dal punto di vista umano. L’ho trovata nei sorrisi e nelle piccole cose quotidiane come lavare i piatti o cucinare per 15 persone un pasto che prima d’ora non avevo mai pensato fossi in grado di fare.

Cosa ho lasciato, invece, sinceramente non lo so. Non sono io a doverlo dire. Non voglio avere la presunzione di poter cambiare le cose. Le cose vanno avanti con o senza di me, questo l’ho capito di certo. Ma le cose sono fatte di persone e le persone sono fatte di relazioni. Quindi quello che lascio sono le relazioni create, in alcuni casi più profonde, in altri più deboli. Ma nonostante ciò sono quelle che danno il senso alla quotidianità presente e futura di ognuno di noi, perché ogni relazione, nel bene o nel male, lascia un segno.

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