• Cb Apg23, 2007

Albania Caschi Bianchi

Il male fa sempre più rumore. Le clarisse di Scutari custodi della memoria delle persecuzioni del regime

Nel cuore del nord dell’Albania un ex convento, adibito a carcere durante il regime, è stato aperto al pubblico da 8 suore di clausura, perché raccontare storie scomode cadute nell’oblio significa costruire una coscienza collettiva capace di non ripetere gli stessi errori in futuro.

Scritto da Laura Lanni

Non sono molti i turisti che visitano Scutari, culla della civiltà e della storia albanese. I pochi che vi si avventurano però, non tralasciano di visitare l’antico baluardo arroccato sulla collina che sovrasta la città e si specchia nelle acque del lago. Dicono che il muschio umido che ne ricopre le rovine, sia bagnato dal latte di Rozafa, una giovane mamma che venne murata viva nel castello, ma pregò i suoi carnefici di poter liberare dalla pietra una mano per cullare il suo bambino e un seno per allattarlo. La leggenda è viva oggi nella memoria delle donne, che si recano a toccare il muschio per chiedere la protezione di Rozafa sulla loro gravidanza.

Pochi però sanno che anche il cuore della città nasconde una storia, anzi tante storie. Storie vere, non leggende, testimoniate da simboli incisi sui muri bianchi delle piccole celle di un convento, vicino alla piazza centrale della città.

Il rumore del traffico si spegne improvvisamente quando entriamo nel raccoglimento del convento, proprietà dei frati francescani fino al 1946, quando fu sequestrato e trasformato in carcere dopo l’abolizione degli ordini religiosi voluta dal regime comunista, seguita dal divieto di ogni forma di culto.

Oggi è di nuovo un luogo di pace: ospita infatti una fraternità di Sorelle Clarisse, 3 italiane e 4 albanesi, provenienti dal monastero di Otranto (Le), che ha scelto di aprire le porte dell’ex carcere annesso alla loro casa per rendere pubbliche le storie custodite da quelle mura.

Suor Sonia che ci accoglie, con il suo racconto accuratamente documentato, rivela la partecipazione commossa per le sofferenze consumate tra queste mura e l’urgenza di comunicarle, nella consapevolezza che mantenere intatto il sottile equilibrio tra oblio e memoria del passato in luoghi come questo significa costruire una coscienza collettiva capace di non ripetere gli stessi errori in futuro.
Il luogo avrebbe bisogno di interventi di manutenzione, ma non è facile trovare qualcuno che si interessi a questo livello soprattutto nel nord dell’Albania.
Quando tre anni fa i Frati Minori di Scutari hanno offerto alle Sorelle la possibilità di abitare e ridare vita a questo vecchio convento, ex prigione della Sicurezza di Stato, c’è voluta la buona volontà di molti per rendere agibile il luogo e farlo diventare quello che è oggi, un monastero e anche un memoriale delle persecuzioni.

Prima della porta di ingresso al carcere sostiamo per qualche minuto: suor Sonia ferma la nostra attenzione sui ritratti appesi lungo il corridoio. Sono le foto di alcuni dei perseguitati che qui hanno trovato la morte, martiri per i quali la chiesa ha avviato il processo di canonizzazione. Molti di questi sono frati e sacerdoti: il clero, la classe intellettuale, artisti e studiosi che esprimevano un pensiero libero, sono stati i primi ad essere eliminati dal regime.
Iniziamo il giro. Nelle stanze superiori del vecchio convento si organizzavano i programmi di persecuzione. I magazzini del convento sono stati riadattati. Quattro stanze erano destinate agli interrogatori. In ogni stanza era fissato a terra uno sgabello vicino al muro, a cui il prigioniero veniva legato e torturato, anche tramite scosse elettriche.
Dal ’46 in poi bastava poco per essere imprigionati: mostrarsi in piccolo gruppo per strada, o aver fatto parte di una associazione di ispirazione cattolica. “Il regime ha annientato in 50 anni la dignità delle persone, e in un paese di dimensioni limitate come l’Albania, non è stato difficile”, commenta suor Sonia. “Nel ’67 veniva proclamato l’ateismo di stato: l’uomo era ridotto a una larva, si doveva preoccupare solo di procurarsi il cibo per sopravvivere, nient’altro…eppure, proprio nelle famiglie ridotte in queste condizioni di miseria, nel nord del paese più penalizzato perché più cattolico, sono stati custoditi i valori della fede, dell’amore, dell’ospitalità!”
Avanzando verso le celle ci fermiamo ad osservare un paio di manette originali, appese a una grande croce in legno. “Sono le stesse che usavano le SS naziste: stringono i polsi fino a far scoppiare le vene” ci dicono i testimoni.

Dai magazzini dei frati sono state ricavate le celle di detenzione Attraversiamo il cortile esterno: altre sei celle con i muri alti. In un angolo delle pareti venivano posizionati gli amplificatori che producevano rumori ad alto volume per coprire le grida dei torturati: questo si può sapere grazie ai testimoni ancora in vita e che con coraggio tornano a rivedere i luoghi della loro prigionia.

Lungo le celle e nel cortile le Sorelle insieme con tanti fedeli hanno voluto celebrare la Via Crucis in quaresima: ad ogni stazione la Parola di Dio si alternava alle parole di chi ha sofferto qui, di chi ha perso la vita a causa della fede e della verità.

La città di Scutari sembra non conservare altra traccia di questo passato, che però è ancora vivo: non solo i sopravvissuti alle torture, ma anche coloro che sono stati costretti dal regime a condannare e torturare i propri fratelli, tornano in questo luogo e lasciano la loro testimonianza: “Se non volevo morire e non volevo che venisse fatto del male alla mia famiglia, dovevo dire di sì”. Oggi si trovano insieme in Chiesa, come in un inconscio tentativo di riconciliazione.

Eppure la gente non vuole ricordare: “Siamo noi a raccontare e far conoscere – dice suor Sonia – i quarantenni di oggi sono stati catapultati fuori dal regime del comunismo, e i giovanissimi sono investiti da un vento di globalizzazione che ha cancellato il passato: manca un anello della catena. I cinquantenni non vogliono raccontare, e sperano per i loro figli il massimo, identificato nella corsa ad un benessere che corrisponde ad uscire dal Paese. Oggi non c’è più l’esodo degli anni Novanta, ma l’emigrazione è un fenomeno costante. Le iniziative per offrire alternative non vengono dallo Stato, ma solo dalle organizzazioni non governative e da quelle religiose. I problemi, le carenze, la precarietà, non mancano ad ogni livello sociale. La scuola conserva modelli obsoleti e a volte anche insegnanti anziani, che non fanno posto a successive generazioni. Le cure sanitarie non sembrano ancora un diritto per tutti.

Comprendiamo che per vie misteriose la Provvidenza ci ha condotte qui per riempire di nuovi significati un vero e proprio santuario del dolore umano e per essere custodi oranti della memoria, affinché tutto sia ‘ricapitolato in Cristo’. Da questo luogo dove fino a pochi anni fa uomini e donne erano crudelmente torturati, da quest’angolo remoto della terra che l’uomo evoluto rifugge e che la storia disdegna, da qui oggi sale a Dio la nostra lode. Semplicemente vogliamo esserci, come frammento di speranza in mezzo a un popolo che, con fatica e sofferenza, sta ricostruendo la sua difficile storia.
E la speranza rimane in tanti piccoli segni, nella tenacia e nella buona volontà di molti. Purtroppo il male fa sempre più rumore.”

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