Caschi Bianchi Tanzania

Coppa del mondo

Una finale dei mondiali senza grossi campioni, ma tanta collaborazione tra giocatori “normali”: un po’ come l’interazione tra italiani e africani in zone di missione. Idee per ridefinire il concetto di “aiuto”.

Scritto da Giuseppe Falcomer CB apg23 2003

Non mi intendo di calcio, sono uno di quelli che considera belle e ben giocate solo le partite in cui la somma dei goal è più alta di cinque in modo che non mi annoio, e molto probabilmente non se ne intendono nemmeno quelli con cui ne parlo seduto a questo sgabello di un bar durante una partita della Coppa del Mondo. Però siamo infervorati, in modo autorevole citiamo dati che al momento nessuno può verificare e abbiamo tolto l’audio alla televisione e alzato il volume dello stereo: gli unici commentatori della partita siamo noi.

L’Argentina ha perso contro tutti i pronostici: nessuno si scompone, in queste due ore abbiamo affermato tutto e l’esatto contrario, quindi in qualche modo abbiamo azzeccato il pronostico.

Bye bye Maradona, torna pure a casa con Kaka, Cristiano e l’Italia. Bye baby bye bye!

E uno dice che le semifinali saranno come l’Africa: non ci saranno campioni ma solo squadre con buoni giocatori e allenatori, tutti normali. Normali nel senso non conosciuti a livello planetario, per lo meno qui in Tanzania nessuno li conosce.

E tra l’altro mi viene da pensare che non ci sarà nessun miracolo alla ‘Invictus’: nessuna squadra africana che vince i primi mondiali svolti nel continente, il Ghana è fuori.

Qui è inverno ma in Italia è estate, il tempo favorevole per avere dei volontari che con le vacanze e le ferie sono più liberi di muoversi e magari fare un’esperienza missionaria.

Secondo me chi accetta di ospitare volontari dovrebbe essere estremamente chiaro su cosa si aspetta e vorrebbe da loro.

Per alcune NGO è palese. Se richiedi un medico è perché svolga il suo lavoro, e vista la preparazione del personale ospedaliero medio tanzaniano, il suo lavoro è sotto ogni aspetto importante anche per brevissimi periodi, e così è per altri lavoratori specializzati come agronomi, contabili, ingegneri: certo devono essere bravi a calarsi nella nuova realtà in modo aperto ed elastico ma il lavoro che devono svolgere è tutto sommato chiaro.

Noi invece chiediamo di condividere un’esperienza e un aiuto per seguire le attività, senza specificare in modo preciso cosa questo significhi. Per noi a volte è dura. Viviamo qui da ormai qualche anno e abbiamo capito che quelle parole a effetto, tipo ‘il vostro aiuto è solo una goccia nell’oceano’, sono vere. A fare i conti abbiamo aiutato in modo diretto, accogliendole e vivendo con loro, tante persone quante ne posso contare sulle dita del mio corpo, e alcune dita dei piedi avanzano. Inoltre capita che i bimbi tornino alle loro famiglie, o vengano accolti da famiglie affidatarie, e quindi non c’è mai la certezza che quello che abbiamo cercato di insegnare loro in seguito possa restare come bagaglio culturale.

L’orgoglio reclama la sua parte, e se è dura per noi posso immaginare per i volontari che hanno sotto gli occhi soprattutto immagini di missionari che fanno notizia: qualcuno che salva vite, che reca un aiuto immediato dopo una calamità, che provoca in qualche modo un cambiamento con il suo intervento. Secondo me di solito questo non succede, ma trovo normale sperarlo: anch’io l’ho fatto prima di partire per la mia prima esperienza.

Lo sbaglio forse sta nel non spiegare chiaramente che la condivisione è solitamente basata sulla collaborazione e l’interculturazione: certo chi viene a fare il missionario normalmente ha delle basi generali (su diritti umani, per esempio, ma anche su altre nozioni pratiche specifiche) in genere più avanzate della popolazione locale, ma importarle senza mediazione equivale a un’azione di tipo colonialista, e quindi equivale a giudicare in maniera negativa le capacità di tutta la popolazione.

A volte ho l’impressione che la mia vita non abbia una grande senso, ma se fossi in Italia e avessi gli stessi impegni la mia valutazione sarebbe differente: è l’aspettativa del missionario a fregarmi. Se facessi il contabile in Italia, per esempio, saprei che quello è il mio lavoro, ciò che faccio per vivere. Ma qui in Tanzania è diverso perché diverse sono le aspettative: il mio lavoro qui dovrebbe in teoria portare aiuto, cambiare la situazione e quando non vedo delle modifiche a cui ho accesso direttamente, tra l’altro immediate e consistenti, mi sento frustrato.

Il nostro vivere qui si basa sulla collaborazione, sull’interrelazione e sulla reciproca intesa con la popolazione: non sono così arretrati da dover accettare in modo acritico ogni singolo consiglio che do, e non sono così poveri, materialmente e spiritualmente, da non potermi insegnare a loro volta molto in ogni attività, dalla muratura alla comunicazione.

Ecco il nesso con la Coppa del Mondo e la finale disputata da squadre non certo tra le prime favorite all’inizio del torneo, squadre eccellenti e forti, dato che hanno avuto accesso alla fase finale, certo, ma normali: la Tanzania è normale.

È sempre nel mezzo delle liste, mai così brava da essere indicata come esempio e mai così mal messa da fare da fanalino di coda, e quindi mai tra le prime delle nazioni che hanno bisogno d’aiuto. E questo a volte destabilizza i volontari: perché siamo venuti in un posto che tutto sommato non ha bisogno di così tanti aiuti?

È il concetto di aiuto che non è definito o che deve essere ridefinito, e bisogna inoltre ammettere che solitamente anche ogni missionario o volontario è una persona qualunque.

La finale è stata una sfida tra squadre senza assi né stelle, che per tutti i minuti necessari hanno giocato senza mai la certezza o la speranza che un singolo fosse chiamato da solo a fare la differenza con una sola azione o con il suo carisma, e in effetti hanno giocato anche i supplementari.

Il rapporto tra volontari e aiutati dovrebbe essere in definitiva in qualche modo simile: una lunga relazione, una collaborazione e a volte giustamente anche uno scontro, ma sempre tra persone ordinarie, che si considerano uguali, nessun leader imposto ma con dei leader che si guadagnano il proprio ruolo sul campo. Come una squadra che gioca contro il Brasile, ad esempio, deve sia giocare bene per poter vincere sia lasciare da parte la paura, il rispetto reverenziale, insomma il timore in generale che i giocatori di quella squadra provocano.

Un rapporto, quindi, senza preconcetti o vincitori designati da stereotipi o pronostici, ma sempre tra giocatori normali che all’inizio si fronteggiano alla pari.

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